Questa via è conosciuta come Sperone degli Abruzzi, perché salita parzialmente nel 1909 da Luigi Amedeo di Savoia, il Duca degli Abruzzi.
La cima viene finalmente raggiunta nel 1954 da una spedizione italiana guidata da Ardito Desio. È un'impresa nazionale. Achille Compagnoni e Lino Lacedelli raggiungono la vetta con ausilio di ossigeno supplementare, ma sulla montagna sono in tanti i forti alpinisti impegnati a prestare loro supporto. Fondamentale è anche il contributo di Bonatti e del portatore pakistano d'alta quota Mahdi, che portano ai due alpinisti di punta le bombole di ossigeno per il tentativo alla vetta. Un gioco di squadra, uno sforzo enorme e di molti, che parte dalla base per portare in cima almeno una piccola cordata, a nome di tutti. Come se più alta e difficile è la montagna e maggiori devono essere le fondamenta dello sforzo umano per dare a qualcuno la possibilità di raggiungere il punto più alto. Un concetto che cozza forse con la moderna idea di alpinismo, ma che fa parte della storia himalayana.
Il K2 viene soprannominato la montagna degli italiani, ma di certo non è addomesticato. Entrano in gioco i giapponesi, che nel 1977, ben 23 anni dopo, riescono a ricalcare le orme degli italiani. È la seconda salita alla cima, anche questa portata a termine con un impegno di forze notevole, uno stuolo di portatori, ossigeno supplementare ed una squadra di 52 alpinisti per portarne in cima solamente alcuni. Anche se a prima vista ripetere una via già aperta, con un simile dispiego di forze, sembra impresa da poco, lo Sperone degli Abruzzi rimane una delle vie d'alta quota sulle quali la probabilità di successo è minore, anche al giorno d'oggi.
Cinque anni dopo sono di nuovo i giapponesi i protagonisti al K2, questa volta con una via nuova. La maggior parte delle spedizioni al K2 infatti si sono finora concentrate sul versante pakistano, lasciando al versante nord un'aura di mistero e timore reverenziale. La Cina non appoggia le spedizioni alpinistiche, rendendo la logistica notevolmente complessa, eppure la cresta nord del K2 è una linea logica ed attraente. Sembra fatta apposta per essere scalata.
La squadra giapponese è composta da 14 alpinisti guidati da Isao Shinkai e Masatsugu Konishi, oltre a 29 portatori improvvisati: sono volontari che si offrono per dare una mano nel trasporto di oltre quattro tonnellate di materiale, a piedi, fino al campo base. Naoe Sakashita, Hiroshi Yoshino e Yukihiro Yanagisawa raggiungono la cima il 14 agosto 1982. La discesa è epica, con i tre costretti a bivaccare, Yoshino da solo e Sakashita che abbraccia per tutta la notte Yanagisawa, sprovvisto di piumino, per scaldarlo. Purtroppo Yanagisawa muore la mattina seguente, scomparendo alla vista dei compagni forse a causa di una scivolata. Altri 4 alpinisti della squadra salgono portando aiuto ai compagni in discesa, e dopo averli incrociati e supportati, continuano la salita arrivando con successo in vetta. La cresta nord è conquistata, il K2 si è lasciato conquistare da entrambi i suoi versanti.
Non mancheranno tuttavia negli anni seguenti altre salite, vie nuove, epopee sotto le bufere ed incidenti. Perché il K2 a fatica si concede, e gli piace ricordare che, anche se più basso dell'Everest, è ben più temibile. La severità e la maestosità del K2 fanno nascere addirittura dubbi sulla sua sudditanza. Solamente nel 1987 il professore italiano Ardito Desio, lo stesso capo spedizione del '54, organizza un nuovo studio scientifico e misura con accuratezza l'altezza delle due montagne. L'Everest è più alto, e vengono messe nuovamente a tacere le voci che volevano il K2 superiore, almeno per un senso di giustizia alpinistica. Più alto non significa più difficile, come è vero che più difficile non merita per forza un'altezza maggiore. Meglio mettersi il cuore in pace ed accettare questa verità della storia alpinistica.
La curiosità umana, la necessità di esplorare il confine tra ciò che è possibile e ciò che non lo è, porta a concepire l'idea dell'alpinismo invernale. Affrontare le cime più alte dell'Himalaya e del Karakorum, dove già d'estate il rischio valanghe è elevato ed il freddo insopportabile, nella stagione più sfavorevole, nelle condizioni più ostili. In alta quota, in inverno, è difficile semplicemente stare, esistere e resistere. Una nevicata improvvisa può annullare in una notte la traccia fatta ed i campi allestiti in settimane di lavoro, il rischio è amplificato, inutile negarlo, e la prova fisica e psicologica è estrema.
I primi a lanciarsi in questa sfida sono i polacchi, è il 17 febbraio 1980 quando Krzysztof Wielicki e Leszek Cichy raggiungono la cima dell'Everest. Sulle ali di questo successo, Andrzey Zawada, che guidava la spedizione, ne organizza subito una al K2. Tuttavia, a causa di complicazioni logistiche, deve aspettare l'inverno '87-'88 per metterla in atto. La montagna non si concede neanche di striscio, la cordata di punta, composta ancora da Wielicki e Cichy, arriva a quota 7300 metri, dopo oltre ottanta giorni passati sulla montagna. La ritirata, sotto la bufera e con principi di congelamento, per tutti ha il sapore di una sconfitta. Il K2 ha vinto, forse è davvero troppo forte.
Il sogno di Zawada, che muore proprio mentre sta organizzando un nuovo tentativo, non cade nel dimenticatoio. Nel 2002 Wielicki eredita il testimone e prende il ruolo di capo spedizione. Mette insieme una squadra di 19 alpinisti, dei quali 15 polacchi. Tra i non polacchi spicca il nome di Denis Urubko. Questa volta il tentativo viene effettuato da nord, lungo la famosa via giapponese del 1982, come immaginato da Zawada. La testa della spedizione raggiunge quota 7600 metri, prima di dover abbandonare. Non è un successo, eppure una barriera psicologica è abbattuta.
L'impresa ritenuta impossibile si è spogliata della prima sillaba, si può fare. Sembra un rovesciamento di campo, almeno sul piano mentale, ma non per questo la montagna si addolcisce ed ogni spedizione è una storia a sé che ricomincia da zero. I tentativi di salire il K2 in inverno, nei decenni successivi, si contano comunque sulle dita di una mano. Nel frattempo vengono organizzati decine e decine di assalti sulle altre cime di 8000 metri che, una dopo l'altra, capitolano e si lasciano calpestare in inverno. Il K2 invece rimane ignorato, ultimo baluardo inespugnato. Troppo alti i rischi, troppo basse le probabilità di successo. È inevitabile che, dopo decenni di oblio, sia ora sotto i riflettori, e soprattutto sulla lista dei sogni di molti alpinisti.
Il K2 è là, fermo, sembra aspettare e provocare. Scalarlo in inverno è possibile, ma non è ancora accaduto.
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