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Le strette di mano, gli abbracci, gli amici, il primo sorso di birra

Davide Grazielli ci racconta com'è cambiato il suo rapporto con la corsa dopo la Western States Endurance Run

E’ stato l’unico italiano presente alla Western States di quest’anno. Ha una passione per le 100 miglia che ricorda con un’emozione da far venire la pelle d’oca per chi ama questo genere di competizioni, specialmente se si parla della storica ed intramontabile Western States Endurance Run, in California.

Ad un mese dalla Western States, com’è cambiata la tua visione della corsa?

E’ cambiata moltissimo dopo la prima volta che l’ho corsa nel 2012, ed è cambiata ancora quest’anno. La prima volta è stata più una scoperta di un mondo nuovo, di paesaggi, persone ed un modo diverso di intendere la corsa e le ultra. Questa volta è stato più un processo interiore, personale, forse anche per le condizioni difficili che abbiamo incontrato. Quando ti metti sulla linea di partenza di una gara così, difficilmente sarai lo stesso alla fine. Non sarai forse migliore o peggiore, ma sicuramente diverso.


 

Cosa ti porti a casa da una 100 miglia?

Tante cose, ovviamente. Ma per me riaffiorano piano piano, con il passare dei giorni e delle settimane. Inizi a ricordare quel tratto dove ti sembrava di essere inarrestabile come quello dove ti saresti fermato a fare il bagno nel fiume, o la canzone stupida che ti ha ronzato in testa per ore, o il sorriso di un volontario, una battuta al volo con qualche spettatore, una vista, un paesaggio. Ed inizi a goderteli.

Subito dopo la gara, non so, io mi sento vuoto. Come se non sapessi cos’altro fare dopo aver corso per venti ore. Spaesato.

Poi le strette di mano, gli abbracci, sedersi finalmente su una sedia, gli amici, il primo sorso di birra e ti rendi conto che anche questa volta l’hai portata a casa. Soddisfazione enorme, perché cento miglia sono davvero un viaggio.


 

Correre per il piacere di correre. Com’è cambiato il tuo approccio nella corsa da quando hai iniziato?

L’idea di base è sempre la stessa, avere uno spazio che sia mio, per fare qualcosa che mi fa stare bene dentro. E spero che rimanga lì per anni. Nell’approccio vero e proprio, ho sempre cercato, consapevolmente e non, di eliminare il superfluo: semplificare il gesto, essere essenziali nell’attrezzatura, logici nei percorsi; la vera bellezza risiede in gesti elementari, che abbiamo dentro. A volte basta liberarci di tutte le sovrastrutture e pensare semplice, ed è anche per questo che corro le ultra: in quelle venti ore devi essere essenziale, curare i bisogni vitali come bere, mangiare e mettere un piede davanti all’altro. La vera libertà.


Nella corsa, quanto è importante avere una “vision”, un obbiettivo personale da portare avanti? Qual é il tuo?

Faccio il furbo e svicolo dicendoti che è la ricerca, il mio vero obiettivo. Ma è chiaro che fissare dei punti da raggiungere, dei limiti da superare, ti dà un grande stimolo, rende tutto più emozionante. La mia “vision” è quella di essere sempre sincero con me stesso, di essere eticamente irreprensibile e di non farmi ossessionare dalla corsa, o diventerei un monomaniaco.

Ma ancora prima di divertirmi, sempre e comunque. Che la corsa, in fondo, non è mica una cosa seria!




 

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