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Filippo Canetta, l’esploratore che amava perdersi nella natura. "Così sono arrivato primo tra gli italiani alla Marathon Des Sables"

La storia dell’ultrarunner con un passato da fumatore e un destino perso tra i monti. Ma solo nelle dune del deserto ho scoperto l’essenzialità dei rapporti umani

“Ero in vacanza con la famiglia in Norvegia, ero riuscito a ricavarmi due ore. Mi sono messo le scarpe e ho iniziato a correre. Ho scoperto un sentiero in salita, ma ero senza acqua. Ho visto delle tracce, sembravano orme e le ho seguite. Sono andato avanti, avanti, avanti finché non ne ho vista una. Una renna, bellissima. Ecco, questo è per me il trail. Non seguo tabelle, non guardo l’orologio. Mi piace esplorare la natura”.

Filippo Canetta ha 46 anni e corre solo da undici anni. Ad aprile di quest’anno è entrato nella leggenda: primo italiano alla Marathon des Sables, la gara in semiautonomia alimentare nel deserto del Sahara, 250 chilometri a tappe che rende i runner leggende immortali dopo sette giorni di guerra e pace con sé stessi e con la natura.

Più che una gara, dicono sia un’esperienza di vita. Ma cosa accade, veramente, nel deserto?

Si parte con uno zaino dove devi mettere dentro tutto quello che ti può servire per i sette giorni successivi, per correre tappe dai 35 ai 90 chilometri nel deserto. Ti danno solo l’acqua e una tenda per dormire la notte. Il resto, dal cibo al telo termico, devi portarlo in spalla. Le scarpe, almeno quelle, non le cambi: io me la son fatta tutta con le Spin Rs.

Più che una sfida fisica, sembra un viaggio dentro sé stessi. Ma come si prepara?

Io ho avuto la conferma solo un mese prima che avrei potuto correrla. Eravamo venticinque dall’Italia su 1.100 partecipanti. Non conoscevo nessuno, mi sono organizzato correndo sul tapis roulant con uno zaino in spalla. Ma ho sbagliato molte cose, mi sono portato via un paio di chili in più rispetto ai miei concorrenti. È l’inesperienza. 



Il regolamento prevede che ogni notte si dorma, otto concorrenti assieme, in tenda. Partenza alle cinque per tutti e poi arrivo nello stesso punto. Che ecosistema emotivo si sviluppa in situazioni simili?

Sono sensazioni che neppure nei trail più lunghi ho vissuto. L’ambiente è totalmente ostile, c’è un ritorno agli elementi basilari: acqua, cibo, sonno. Sebbene ci sia tutta la crudeltà della natura, della tempesta di sabbia, del sole che batte, e sebbene tutti siano in gara, non ho mai percepito tanta empatia tra persone. Tra italiani ci aiutavamo. Non c’era tensione, anzi: nell’essenzialità di dover sopravvivere ho riscoperto il senso puro del rapporto umano.

Ma ad un certo punto finisce e ti resta un vuoto dentro. Un senso di nostalgia per il deserto. Ti è capitato?

L’emozione è stata fortissima, la soddisfazione enorme. Ma più che la gara, mi è rimasta incisa nell’anima una forma ancestrale di riconnessione con la natura, un ritorno ai bisogni primordiali. L’uomo è un animale, da solo nel deserto ho ritrovato la mia essenza. E lo capisci quando dormi bene, quando sei sereno.

E poi sei tornato alla vita reale… Milano com’è dopo il Sahara?

E’ stato più faticoso tornare che non correre nel deserto. Mi son trovato un sacco di lavoro arretrato, ho tre occupazioni che mi assorbono. Sono dipendente per un’azienda che fa mobili per bambini e collaboro per uno studio che progetta spazi verdi. Anche se poi la mia passione è il marchio di abbigliamento che ho creato pensando alla connessione dell’uomo con la natura, Wild Tee. Sento mio questo progetto, è legato alla corsa e alla vita che amo.

A proposito di amore per la corsa, spiegaci come mai hai iniziato così tardi…

Avevo 35 anni, fumavo e avevo problemi intestinali. La mia ex moglie non mi faceva vedere mio figlio. Mi sono arrabbiato tantissimo e mi sono messo a correre per sfogarmi. All’inizio mi sembrava impossibile fare cinque chilometri. Undici anni dopo sono qui, mio figlio ha deciso di venire a vivere con me. Adesso sono finalmente felice.


Di chilometri ne hai fatti, in questi anni, dominando gare epiche, dalla Western States Endurance Run alla Ultra Trail du Mont Blanc fino alla Spartathlon. Dove trovi gli stimoli per sfidarti ancora?

La verità è che sto bene solo quando mi metto in situazioni estreme e particolari. Voglio vedere come reagisce il mio corpo, studiare come la mia mente sopporta la bellezza e il dolore, se il mio cuore accetta il limite e lo supera. Lo faccio anche in allenamento, voglio sempre andare oltre. È un po’ come cercare la renna: sai che c’è, sai che la puoi trovare. Io non mollo finché non ci riesco, e alla fine trovo pace.

Ti sarai pur ritirato, ogni tanto.

In effetti, in un paio di gare ho mollato. Non voglio neppure ricordarle, mi fa ancora star male. Non avevo più forza, ma col senno di poi avrei dovuto lo stesso andare avanti. Capita pure di perdere, la vita è così. Ma le sfide sono infinite, la prossima è la Ptl, la Petite trotte à Léon dell’Utmb. Sono 300 chilometri con 25 mila metri di dislivello da fare in squadra, in percorsi non segnalati e con soli due campi vita. Sarà stupendo.

Ma l’obiettivo finale di un esploratore del limite come te, quindi, quale sarà?

Vorrei tanto poter continuare a correre. Magari sempre più piano, perché invecchio. Ma mi vedo con lo zaino, in montagna, anche da anziano. E mi piacerebbe che questo amore per l’avventura fosse assorbito da chi mi sta vicino. Se ho una immagine del paradiso è questa: io e mio figlio a correre insieme la Marathon des Sables. Nel deserto, la notte silenziosa e infinita, e solo le stelle attorno a noi.

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