Improvvisamente arriva l’autunno, le vette si ammorbidiscono di neve mentre in pianura piove e la terra diventa fango. Le scarpette da trail running escono sempre meno dalla cassettiera: tocca far qualche nuotata o ritornare sull’asfalto, in attesa della nuova stagione. Questo è il periodo dell’anno nel quale si fanno i bilanci della stagione. E capita di ripensare alle gare corse tra primavera ed estate, alle emozioni vissute. A quella salita che non finiva mai, a quel recupero pazzesco dopo una crisi che pareva uccidere, a quello scorcio mozzafiato in vetta, all’emozione provata dentro quell’alba che non dimenticherai mai. Ogni sfida a fil di cielo dona all’anima del trail runner emozioni uniche. Ma ogni tanto accade qualcosa di magico. Ecco, abbiamo deciso di raccontarvi alcune delle magie che hanno vissuto gli atleti del team SCARPA® durante le loro gare del 2019.
A partire da un leggendario trail del Nevegal, dove
Cristian Sommariva è arrivato terzo lo scorso 29 settembre: 21 chilometri con 1.700 metri di dislivello dentro la ferita di legno causata dalla tempesta Vaja. “I sentieri dopo quella furia erano impraticabili, ma grazie al lavoro di “GiaNpaolo” Garaboni e della squadra di “NevegalliKa” la gara si è potuta correre lo stesso”, spiega Sommariva. “Per me, già questo è stato emozionante: gareggiare nei luoghi dove vivo, vedere i boschi dove era passata la tempesta”. Il resto è il racconto di un ritorno alla competizione. “Seicento metri dopo la partenza tutti mi superavano - racconta ancora Sommariva - ma non ho mai perso la grinta e quando volevo farlo pensavo a Giorgio Sitta, ex atleta della zona over 70, che mi diceva “dai bocia i primi son qui davanti”. Io non ho mollato. E mi sono buttato in discesa a tutta, fino alla fine, quando ho recuperato anche i primi due”.
Per
Davide Grazielli il momento indimenticabile di questo 2019 non è invece una intera gara, ma un attimo che gli ha scalfito l’anima: era il miglio 40 della sua Ultra Trails Lake Tahoe. “Le gambe iniziavano a essere pesanti, l'altitudine si faceva sentire, lo stomaco brontolava: avevo ancora davanti 60 miglia di gara e la notte incombente”, racconta Grazielli. “Ma sapere di essere in California, in un posto stupendo, su un sentiero polveroso con intorno alberi enormi e il lago che faceva capolino tra il verde, mi ha ricordato perché amo la natura e perché mi piace correre le lunghe distanze: perché è un tuffo nel buio. Nonostante tutto l'allenamento, l'esperienza, la preparazione che puoi avere, oltre un certo punto c'è sempre l'ignoto: nessuno sulla linea di partenza di una cento miglia è sicuro di arrivare, ed è proprio per quello che mi ritrovo puntualmente su quella linea di partenza. Poter condividere questa emozione con gli altri trailer, con la tua crew e con i volontari sul percorso è un grande privilegio”.
Se chiedete a
Francesco Fazio del 2019, lui vi risponde con una lunghezza e una altezza: sono i 120 chilometri, ma soprattutto il muro di 5.800 metri della Lavaredo Ultra Trail. Un po’ per una “dolce ragazzina a cui tenevo molto” che l’ha aiutato nel flusso dei pensieri durante la gara, un po’ per il coraggio di tentare una sfida “a cui non ero preparato per colpa del meteo e dei malanni di stagione, per questo ci ho messo più testa che gambe”. Inizia così il suo racconto di una notte infinita, fino al quarantesimo chilometro e al sole che scalda le ossa. Il primo microsonno, le Tre Cime di Lavaredo, l’energia che riaffiora. I chilometri che scorrono, gli amici che ti aiutano tra massaggi e cambi di abiti ai campi vita. E poi arriva il chilometro numero cento. “Improvvisamente mi sono spento – racconta ancora Fazio - forse perché ho bevuto acqua fredda, forse la stanchezza. Poco importa: mi sono dovuto fermare e coprire. Dieci minuti di sonno, ho sognato Ari, la mia cugina che mi spingeva e mi diceva di darmi una mossa. Mi sono svegliato e immediatamente mi sono alzato e ho iniziato a correre, come non avevo fatto mai fino a quel momento. Avevo il fuoco dentro, vedevo le luci di Cortina. Erano le due di notte, l’arrivo: nel mio cuore una festa, la felicità di esserci riusciti, sapere che lei c’era sempre stata. Perché #iononcorrosolo”.
C’è chi, invece, come la giovanissima
Ilaria Veronese, sceglie la Uyn Vertical Courmayeur Mont Blanc, il vertical K2000 da Courmayeur a Punta Helbronner per un motivo naturalistico, prima ancora che relazionale. È una delle sensazioni che i trail runner cercano con più intensità e costanza. Il paesaggio mozzafiato, la bellezza della natura, la trascendenza metafisica della montagna. Ilaria si è innamorata del paesaggio che si vede ai piedi del Monte Bianco. “Quest'anno la giornata era veramente spettacolare - ricorda - e il contrasto tra il bianco della neve del ghiacciaio e il cielo blu è stato emozionante”.
Le gare, peraltro, non sempre finiscono bene. E magari proprio perché la resilienza intrinseca ai trail runner impone ai corridori del cielo di non mollare mai. E l’esempio perfetto è la storia di un professionista,
Ivano Molin, che ha scelto il Dolomiti Beer Trail per sintetizzare la sua stagione: una 121ma posizione che non dimenticherà mai. “Dopo circa chilometri dalla partenza ho sentito una fitta tremenda alla gamba destra, ma ho voluto terminare la gara comunque”, racconta oggi. “Visto che non mi sono mai ritirato in carriera non potevo certo iniziare la stagione così. A fatica mi sono trascinato al traguardo e poi ho passato il pomeriggio al pronto soccorso. Ricordo che mi si era gonfiata tutta la gamba all'altezza dell'inguine. Ci è voluta l'ecografia per scoprire uno strappo con versamento che mi ha tenuto fermo per un mese. Il medico mi ha solo detto che forse era il caso di fermarsi prima...”