Matteo Eydallin è un poeta delle vette un po’ naif, di quelli che amano la fatica e la natura incontaminata più che i riflettori e le mode del momento. Uno di quegli scialpinisti che se devono scegliere tra una via sicura e un fuoripista non hanno dubbi, atleti d’élite che sanno vincere le gare lottando su ogni metro di discesa dopo ore di guerra tra i monti. “Mi sento un cane della steppa”, dice lui in questo periodo particolare: sta infatti recuperando dall’infortunio al gomito. E se le prestazioni di scialpinismo non dovrebbero risentirne, rischia invece di perdere un po’ di flessibilità nella sua grande passione, l’arrampicata.
Matteo, partiamo da settembre. Cosa è successo?
“Stavo facendo bouldering. Una presa andata male e sono caduto. Mi sono rotto il gomito: l’osso spaccato, i legamenti compromessi. È stato il mio primo infortunio serio. Onestamente, credevo di tornare completamente in forma in poco tempo. Ma la fisioterapia non è bastata e ho ancora dei problemi di mobilità. Ne soffre in particolare l’arrampicata, ho perso dei gradi di flessione: anche se sono a riposo il muscolo è sempre teso”.
In compenso, la tua attività di scialpinista praticamente non ne ha risentito…
“Infatti, sto facendo molta fatica a riprendermi mentalmente più che fisicamente: non posso lamentarmi del risultato nella prima tappa World Cup dove sono arrivato secondo. E gli obiettivi per quest’anno non mancano: parteciperò a tutte le gare Grande Course e di Coppa del Mondo. Diciamo che rivincere la Pierramenta e conquistare la coppetta di specialità nell’individual a livello mondiale non sarebbe male”.
Ma prima di inoltrarci nel 2020, facciamo un passo indietro. Quando è iniziata la tua passione per le vette?
“Sono nato in montagna a Sauze d’Oulx, in Val di Susa, ed ho iniziato a praticare lo sci a quattro anni. In estate facevo mountain bike ed ero portato per la resistenza: il mio allenatore mi spinse a provare qualche gara di scialpinismo e sono arrivati i primi, inaspettati, risultati. Tra i 18 e i 20 anni ho iniziato la mia carriera da professionista e non ho più smesso”.
Da allora di gare ne hai corse moltissime e le medaglie non si contano più. Ma ce n’è qualcuna che ricordi con particolare affetto?
“La gara che porterò sempre nel cuore è il Mezzalama del 2013 quando con i miei compagni Reichegger e Lenzi abbiamo vinto. Non eravamo i favoriti e non è stato facile, ricordo ancora la discesa furiosa con la quale siamo riusciti ad imporci. Ma è stata leggendaria anche la mia prima volta alla Pierramenta. Alcune sconfitte non sono mancate, ma l’amaro in bocca cerco di farmelo sparire abbastanza velocemente per andare avanti, verso luoghi sempre più lontani e verso sfide sempre più emozionanti”.
L’importante è che siano gare vere, di quelle che ti ricordano le prime sfide giovanili, giusto?
“In effetti sono uno scialpinista di vecchia scuola. Non mi alleno coi cronometri, mi sento sempre negli anni Ottanta e scappo dallo stereotipo dell’atleta moderno. Mi piace allenarmi col mio cane (adoro gli animali, la mia fidanzata è pure veterinaria) e impazzisco di gioia quando sono in montagna: ci sono posti che nessun linguaggio e nessuna grammatica riuscirebbero a descrivere. Per questo credo che lo scialpinismo sia disciplina per gli amanti dei fuoripista, non per chi segue vie semplici o si ferma alle salite”.
Anche se adesso il trend è quello dei vertical e degli sprint…
“Io resto fedele all’origine di questo sport, che deve essere puro. E poi amo le distanze da endurance, le sfide lunghe, cavalcate da una vallata all’altra, traversate che poi finiscono in discese tecniche, quasi alpinistiche. Questo è lo sport che amo, questo è il modo in cui vivo la montagna e nell’essenza naturale dello scialpinismo e dell’arrampicata ritrovo me stesso”.