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Raccontare la vita di Joe Grant è immergersi dentro l’avventura esistenziale di un filosofo dell’alpine running, un atleta che parte dalle gare per trovare nel proprio sangue la passione antica che nutre gli esploratori. Ma non c’è solo potenza muscolare e resilienza mentale in quest’uomo nato in Inghilterra e trasferitosi in Francia coi genitori a sei anni prima di iniziare a vagare sui sentieri di mezzo mondo, dall’Alaska al Giappone, passando per il Messico.
C’è anche uno spirito colto, che si è dato come missione di vita quella di raccontarsi, per far conoscere al mondo la natura dove vive. Un runner che oggi definisce “casa” il Colorado, tanto da aver voluto conoscere la propria terra attraverso le spedizioni più estreme. La Nolan 14 è l’emblema massimo della sua passione: 14 vette ad oltre 4.200 metri di altezza raggiunte correndo per oltre cento miglia.
Joe, di sfide ne hai vissute tante. Ma una delle più strane è sicuramente quella del Copper Canyon, nella gara organizzata da Caballo Blanco con gli indigeni Tarahumara… Ma come hai fatto a vincere?
“Era la mia seconda gara, ci sono andato nel 2008. Christopher McDougall c’era stato l’anno prima, il suo libro però è uscito l’anno dopo: è il best seller mondiale “Born to Run” che ha diffuso la cultura dell’ultrarunning ovunque vendendo quasi tre milioni di copie. Paesaggi pazzeschi, è stata dura. Ma ho vinto contro la tribù dei superatleti più forti al mondo, che ancora oggi corrono scalzi: non so come ho fatto. Ma è stato stupendo”.
Prima di entrare nell’arena delle gare, cosa facevi?
“Ho sempre amato vivere all’aperto e ho scoperto che correndo sui monti potevo fare escursioni lunghissime in poco tempo. Per vedere paesaggi che avrebbero avuto bisogno di tre giorni di cammino, a me bastava poco più di una mattinata. E in più non mi serviva portare lo zaino, se non per sopravvivenza. Ho iniziato a correre per andare più lontano, per esplorare più luoghi nel minor tempo possibile”.
In quel periodo stavi studiando per diventare manager nelle Ong, cosa ti rimane di quell’esperienza?
“Ho sempre voluto cercare di fare del bene al pianeta, adesso porto avanti quell’inclinazione con un impegno costante per il mio progetto, www.alpine-works.com dove raccolgo le mie avventure, le foto e persino il film che ho girato nel 2016. È un modo per far conoscere l’ambiente e difendere la bellezza della natura, mi piace diffondere attraverso le mie prestazioni il bello che c’è nel mondo”.
Adesso che di miglia ne hai corse a migliaia, hai capito quale è la tua gara ideale?
“Mi piace molto variare. La mia gara perfetta inizia in una città, mi fa correre in piano, poi mi fa salire e mi porta a fare passaggi tecnici durissimi, fino alla cima della montagna. Poi ci si butta a capofitto, in discesa, si vola verso giù. Mi piace usare tutte le tecniche, amo variare”.
Tra le medaglie che porti al collo c’è anche quella guadagnata in Alaska: la gara dura cinque giorni, si corre d’inverno. Come si fa a prepararsi ad una sfida di questo genere?
“Più che una gara, è una forma di esplorazione estrema in semi-autosufficienza. Si corre nel nulla bianco, sono oltre 560 chilometri nella neve e sottozero. Non c’è un vero modo per allenarsi a situazioni tanto estreme, serve l’amore per la natura incontaminata e la voglia di andare ancora più là, sempre oltre: nessun luogo è lontano quando sai di poterlo raggiungere”.
Ripeti sempre che la gara che meglio ti rappresenta è la HardRock, che è considerata leggendaria dagli ultrarunner. Perché la ami?
“E’ la cento miglia di casa mia, il sogno che hanno i bambini fin da piccoli. Il percorso prevede salite ripide, discese con ghiaioni, nevai e guadi. Il clima è mutevole e può cambiare rapidamente portando temporali, pioggia, grandine e forte vento, serve essere autonomi per ore. La corro ogni anno, è la mia vita. Dentro c’è tutto quello che amo della corsa in montagna: un gruppo di atleti solidali, l’avventura, la gioia spensierata della natura”.