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La Valfurva dorme ancora, mentre i fari della jeep illuminano la strada dei Forni. Marco scorge un paio di cervi, piccole sagome nere sul filo della cresta, davanti al cielo che schiarisce.
Marco, i due cervi sembrano dirti “bentornato”. Cosa si prova a tornare a casa?
Queste montagne vivono dentro me, ed io dentro di loro. Sono ufficio del mio lavoro di guida, palestra dei miei allenamenti, ma soprattutto culla della mia anima. Qui sto bene, è il senso dell’appartenenza. La jeep sposta i sassi agitati dal disgelo, e superato il rifugio Pizzini il motore si spegne, con l’ultimo respiro soddisfatto di chi ha fatto la sua parte. Ora tocca all’uomo.
Cosa ti spinge a partire? Lasciare la tua valle e salire verso la cima?
Quando alzo gli occhi verso una montagna è come guardare un film, come se già vedessi il mio corpo sulla parete. E sale lo sguardo, sale il pensiero. E più la parete è grande, più il collo si tende, il naso si rivolta all’insù, e un brivido mi pervade. Io la chiamo passione. Il Gran Zebrù, il “K2 della Valfurva” compare in dissolvenza tra le nebbie dell’alba. Morene, ghiacciaio, pareti di roccia e ghiaccio. Le montagne sono tutte uguali, ma forse lo sguardo distingue in ogni forma uno spirito.
Perché Marco? Perché sali proprio i colossi di 8000 metri?
All'inizio della spedizione, il campo base ti sembra scomodo e inospitale. Ma quando scendi dai campi alti lo stesso luogo acquista il massimo del lusso, solo perché il materassino è un po' più spesso e hai le maglie di ricambio ben piegate in tenda. Quest'anno, durante il tentativo alla vetta, per il freddo si è ghiacciato persino il contenuto del thermos, all'interno della tuta! Sono montagne immense, lassù è tutto diverso, specialmente se sei senza ossigeno. È veramente dura, e per questo siamo in pochi a farlo. Dovresti leggere il mio nuovo libro “Il cacciatore di 8000”, per provare a capire cosa vuol dire 8000 metri. Comunque ho iniziato un percorso, che è anche un sogno. Non so se mai toccherò la cima del mio quattordicesimo ottomila, sarebbe l’ultimo. Non so che sensazioni proverò. Questa è la mia strada, ogni singolo passo è nuovo e mi porta avanti, in un viaggio dentro me. Percorrere questa strada è diventato la mia vita.
Tu sei un alpinista estremo, si potrebbe dire che il rischio è il tuo mestiere. Ma dimmi, ne vale veramente la pena?
Di eroi sono pieni i cimiteri, mi diceva mio nonno. Rischiare di perdere la vita, il bene più prezioso che abbiamo, non vale mai la pena. E te lo dice uno che oltre ad averne vissute, ne ha viste parecchie di avventure degli altri. In alcune sono entrato come un angelo appeso ad un elicottero, per cambiarne il destino. Altre purtroppo non ho potuto far altro che essere testimone della tragedia. In montagna la sicurezza è la cosa più importante. Cima, croce, fine degli sforzi di ascesa. Orizzonte finalmente libero. Gioia, soddisfazione, serenità.
Marco, che emozioni tradisce il tuo respiro?
Io faccio la guida alpina. Mi nutro delle emozioni dei clienti che accompagno quassù. Loro sono la mia soddisfazione. Invece quando metto piede sulle mie cime, in un attimo si condensano il sudore dei miei allenamenti e le poche molecole di ossigeno nei polmoni. Penso alla fatica aggiuntiva di doversi muovere senza dita dei piedi. Ogni mia conquista è una lotta, ma, ne sono sicuro, molto meno dura di tante altre sfide umane, come per esempio quella di chi combatte un tumore. La discesa è aiutata dalla gravità, qualche corda doppia e si tocca di nuovo terra, il mondo orizzontale.
Cosa avresti fatto Marco, se non fossi stato attratto dal mondo verticale?
Mi piace la velocità, i motori, credo sarei diventato un pilota. Forse la mia essenza di alpinista è proprio la testa di un pilota e un buon motore nelle gambe!
Al Rifugio Forni Marco è di casa. Questa mattina gli ha portato un sacco con il pane fresco, lasciato fuori dalla porta prima di andare in montagna. Lo salutano come un figlio, rincasato dopo mesi di avventure fuori porta. Marco sorride, si sente amato. Curioso chiede novità, domanda cosa si è perso in questi mesi di spedizione al “Kangche”. Perchè a casa la vita va avanti, e Marco lo sa bene. Come si gusta il freddo della spedizione e la conquista di una cima, si gode ora il calore della sua Valfurva e l’affetto degli amici. Bentornato a casa Marco!