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Matteo Pigoni, cinque infortuni in un anno. "Vi spiego come ne sono uscito"

Stava vincendo tutte le gare, si è trovato fermo per una frattura da stress. Ginnastica e riposo, non stavo ascoltando il mio corpo.

E infine arrivò la stagione perfetta. Per Matteo Pigoni, uno che alla fine degli anni Novanta vinceva i campionati europei di duathlon con la nazionale, era pure giunta la stagione della consacrazione nei trail. La primavera del 2017 sembrava la svolta. Nel giorno della Liberazione la vittoria nel trail delle Due Rocche, 48 chilometri con 2.300 metri di dislivello a Cornuda, nel Trevigiano. Poi il Dolomiti Extreme Trail di inizio giugno a Forno di Zoldo (nel Bellunese) su 53 chilometri e 3.800 metri di dislivello. Altro primo posto nella sorella cattiva della Lut, la Cortina Trail da 48 chilometri e un muro di 2.600 metri a fine giugno. “A quel punto ero pronto per il Cervino X-Trail (60 km e 3.850 d+) quando è iniziato il mio inferno”, racconta oggi, a più di un anno da quell’infortunio.

Avevi corso quaranta chilometri, ormai avevi raggiunto il primo dopo un lungo inseguimento. Cosa è successo?
“E’ iniziata con una fitta sopra al gluteo. Non ci ho dato importanza, ero caldo. E mi sono buttato prima su cinque chilometri di salita, poi ecco dieci di discesa; altra salita e poi il traguardo. Alla fine faticavo a dar forza alla gamba, zoppicavo, praticamente non camminavo più”.

Microfrattura da stress e edema osseo importante all’S2 dell’osso sacro sinistro. Questo però lo hai scoperto la settimana dopo. Che si fa in casi come questi?
“All’inizio la rabbia era tantissima. Poi capisci che ti devi fermare, e che forse avresti dovuto farlo anche prima. Ma non lo avevi capito perché stavi bene e non ascoltavi il tuo corpo”.

Cioè sarebbe stato meglio ritirarsi da quel trail?
“Non ero caduto, non avevo subito nulla di traumatico. Semplicemente, il mio corpo di quarantaduenne non aveva retto gli sforzi degli ultimi mesi. Sono alto 181 centimetri e peso 61 chili, la potenza delle gambe ha usurato altre parti del mio corpo. E per rispondere alla domanda: sì, sarebbe stato meglio fermarsi. Ma come fai a capirlo, durante una gara?”.

In effetti, lasciare i sentieri durante un trail è doloroso, più che sopportare la fatica. Come è andata la riabilitazione?
“Malissimo (ride, ndr). Io prima di allora non mi ero mai fermato, forse una infiammazione qualche anno fa. Ma a quel punto qualcosa si è rotto negli ingranaggi dei miei muscoli. Nell’ultimo anno mi sono fermato altre cinque volte. Cinque volte, di fila, senza quasi una ragione”.

Come è stato possibile?
“Io sono competitivo in gara, nel mio lavoro in una azienda di impianti elettrici a Modena; sono agonista sempre. Dunque, ho accelerato anche di fronte a questa sfida, la riabilitazione. A settembre ho ricominciato, a gennaio in un trail mi sono lesionato tra il tendine e il polpaccio soleo”.

Poi hai avuto sfortuna: un trattore ti ha attraversato la strada mentre ti allenavi in bici. Che pensavi, in quel frangente?
“Che l’anca mi faceva ancora male, mi sono sentito vecchio. Ma ho ripreso e ho pure vinto una gara, a inizio 2018: la Marcia dei Tori sull’Appennino, una corta da 16 chilometri e 1.300 di dislivello. Poi l’infortunio dietro la coscia. Sembrava una puntina, ma era uno strappo. Chiudiamo il cerchio con una bronchite, avuta da poco, che mi ha fatto perdere una maratona”.

Sei riuscito a ricavarci una morale da quanto ti è successo?
“La prevenzione, sicuramente. Tutti lo sanno: ci sono gli esercizi di potenziamento, che agiscono sui muscoli che non alleniamo durante la corsa tra i monti. Ci sono ginnastiche posturali, di core. Io ho iniziato con il power yoga, ma ce ne sono molte altre. Serve sapersi ascoltare, variare gli allenamenti e potenziarsi per evitare gli infortuni”.
E se ti ricapita ancora?
“Ma magari mi ricapita anche di vincere di nuovo un trail…”

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