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Moreno e l’impresa di portare sette persone amputate sulla vetta del Monte Rosa

Ma una nevicata in quota ferma il progetto. “Abbiamo imparato il rispetto per la montagna, l’anno prossimo ci ritentiamo”.
 Ad ottanta centimetri di neve dalla vetta. Fosse un film, potrebbe essere questo il titolo dell’impresa (mancata) dal team di Moreno Pesce. Il progetto “Ama-bilmente” aveva come obiettivo la vetta del Monte Rosa: sette persone amputate alle gambe ci hanno provato, ma si sono fermate al Rifugio Gnifetti in una notte di tempesta. Nessun posto è lontano, ma la montagna è madre spietata che sa uccidere se viene sfidata nei giorni in cui è arrabbiata. E per questo, dopo mesi di preparazione, il gruppo composto da una trentina di amanti dell’avventura ha dovuto gettare la spugna. Abbiamo intervistato Moreno, che fa parte del team SCARPA® e ha nel curriculum più di cento gare di corsa in montagna. È la storia di come, quando si fallisce, si possa imparare di più che non durante una cavalcata vittoriosa.



Partiamo dalla fine, da quell’attimo in cui avete deciso che mesi di lavoro scivolavano via, come acqua che dai monti precipita a valle.

“Era sera, dopo una giornata passata a camminare dal Rifugio Mantova per raggiungere il Gnifetti a 3.647 metri, dovevamo decidere il da farsi. La partenza per chi, come me, avrebbe avuto bisogno di una dozzina di ore per il salto verso Capanna Margherita a 4.565 metri era fissata per le due di notte. Le guide non ci hanno neppure svegliato, c’erano quaranta centimetri di neve fresca da noi e ottanta in vetta. Impossibile proseguire”.

La lezione della montagna: serve rispettarla. Cosa si prova a veder sfumare un sogno così, all’ultimo?
“Non è stata una sconfitta, è stata la presa di coscienza che è impossibile programmare tutto. E pensare che era da ottobre che ci stavamo organizzando tra sponsor e accompagnatori. Eravamo un bel gruppetto tra guide alpine (una di loro era amputata) e figure di supporto. La più grande impresa collettiva di persone senza arti inferiori sul Monte Rosa. Per me era il quarto tentativo in cima. Non ci sono riuscito neppure questa volta”.

La tua squadra come ha reagito, non c’è stato qualcuno che voleva tentare la sorte lo stesso?
“Eravamo uniti. Tre di noi, i “trans tibiali”, forse potevano farcela. Ma quelli come me, i “trans femorali” con amputazioni tanto impattanti, non avrebbero avuto una finestra di tempo utile. Abbiamo deciso tutti di abbandonare, il gruppo è rimasto compatto”.

“Non c’è quattro senza cinque”, hai detto ai tuoi soci di avventura. C’è già una data?
“Mi piacerebbe riprovarci nello stesso periodo, a giugno. Le giornate sono più lunghe. In ogni caso, lo schema dell’avventura che prevedeva la nascita di cordate di tre persone, ossia un amputato, un suo accompagnatore e una guida alpina professionale funziona”.
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Una strategia, questa, che farà scuola. Come sta andando coi comitati organizzatori delle gare di skyrunning?
“La Fisky, la Federazione Italiana Skyrunner, da circa un anno ha accolto un nuovo regolamento riservato agli atleti con disabilità, sono nate ufficialmente le para-skyrace. Da ottobre faccio parte di un desk di organizzatori di gare coi quali abbiamo messo nero su bianco la nascita delle categorie di runner amputati, ciechi o sordomuti”.

Immaginare una persona senza una gamba o cieca a correre sui monti fa paura. Ma è davvero possibile?
“È già normalità: stiamo parlando del passato, non del futuro. Ovviamente servono accompagnatori e preparazione. I ciechi cadono e si rialzano come tutti gli altri, gli amputati soffrono il doppio del tempo sforzando una sola gamba. Ma la passione per i monti e la voglia di sognare, alzando l’asticella, andando più lontano possibile, sono forze incredibili. La nostra spedizione sul Monte Rosa è servita solo a raccontare questo mondo, altrimenti sommerso”.

Era il 30 agosto 1997 quando quell’incidente ti portò via una gamba, sei tornato tra i monti nel 2001 e dal 2007 hai iniziato a partecipare alle gare. Adesso hai anche un ruolo istituzionale. Ma quando si fermerà Moreno?
“Ad ogni gara mi ripeto: non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio. Poi arrivo sempre al traguardo. Io amo l’avventura, amo i monti, amo la gioia che lo sport in alta quota dona. Voglio vedere posti nuovi, voglio continuare a viaggiare. Temo che un giorno non avrò più la forza o la testa per arrivare così distante. Per questo, adesso ho solo un obiettivo: andare oltre i miei limiti, per dimostrare a me stesso e agli altri che tutto è possibile”.
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Credits Jacopo Bernard
 
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