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SILVIA E STEFANO IN NEPAL, DUE CUORI CON LO STESSO FUOCO DENTRO

Silvia e Stefano: da quanto tempo vi conoscete, da quanto viaggiate insieme?

“Ci siamo conosciuti nel 2016 nella mitica sala boulder “Intellighenzia Project” di Padova, una palestra di arrampicata che è stata nel corso degli anni fucina di molti alpinisti ed arrampicatori patavini. Praticamente ci siamo conosciuti ed abbiamo iniziato a viaggiare allo stesso momento. Al tempo entrambi eravamo dipendenti d'ufficio, ma sognavamo terre lontane e grandi avventure. Il destino ci ha fatti incontrare al momento giusto, abbiamo dato le dimissioni dal nostro lavoro a tempo indeterminato e così è iniziato il nostro viaggio di vita insieme, che continua ancora oggi. In questi otto anni abbiamo vissuto diverse spedizioni extraeuropee, i corsi per diventare entrambi Guide Alpine, climbing trip in giro per l'Europa e tanta van life su tutto l’arco alpino, sempre spinti dal fuoco dell'arrampicata...Il tutto sempre insieme!”
 

Che lavoro fate? Come conciliate le spedizioni in giro per il mondo con il lavoro?

“Siamo Guide Alpine, accompagniamo i clienti sulle cime che sognano di raggiungere e organizziamo corsi di formazione nei vari ambienti montani, dall'arrampicata sportiva alle cascate di ghiaccio e lo scialpinismo, dall'alpinismo su roccia all'alta montagna. Nei nostri corsi insegnamo agli allievi come muoversi in autonomia e gestire i rischi. Il lavoro che abbiamo scelto si concentra nei mesi durante i quali la domanda turistica è più elevata, estate e inverno, e ci consente quindi di conciliare le spedizioni negli altri periodi. Lavorando tutti i giorni nei mesi di alta stagione, possiamo permetterci di “chiudere l'ufficio” per un paio di mesi consecutivi, durante la bassa stagione. Questo significa però assecondare la stagionalità turistica e quindi riservarsi sempre il periodo di ottobre-novembre per le nostre spedizioni. Non sempre questo periodo coincide con quello migliore per alcune mete, ma purtroppo al momento non possiamo permetterci di lasciare il lavoro nel pieno della richiesta. Alcune montagne e alcuni progetti rimangono in serbo per un futuro più florido... Speriamo!”
 

Quali sono per voi gli ingredienti di una vera e propria avventura?

Silvia: “Avventura è vivere qualcosa lontano dalla mia quotidianità, in un posto diverso da quel che mi è familiare, come ambiente, cultura, lingua, abitudini eccetera. Avventura è immergermi nella natura facendo qualcosa che dipenda da essa in modo imprescindibile e quindi mi costringa ad assecondare i suoi ritmi; è vivere qualcosa di creativo, qualcosa che sia sorprendente e che mi faccia cambiare i piani continuamente perché succedono imprevisti, non per forza negativi. Avventura è trovarmi dentro qualcosa che non mi aspettavo e che mi faccia dire “wow”, avventura è la commozione che provo quando qualcuno di sconosciuto mi dice qualcosa di molto profondo e diretto rispetto a quel che ho cercato proprio dentro quell'avventura. Avventura è mettere alla prova il mio corpo e la sua resistenza con una sfida adeguata alla posta in gioco. È un insieme di ideazione, realizzazione e scoperta di me stessa e di quello che mi sta attorno, sia dal punto di vista fisico che umano.”

Stefano: “Sicuramente il fattore incognita è un elemento che crea molti disagi e molto stress, ma, proprio grazie a ciò, rimane spazio e tempo all'avventura di crearsi giorno dopo giorno, decisione dopo decisione. Così è stato per noi durante l'ultima spedizione in Nepal.. e forse anche nella vita! La passione ed il desiderio per la montagna e l’arrampicata è sicuramente l’ingrediente principale che mi spinge ogni anno a spendere parte dei miei risparmi e del mio tempo libero per partire all’avventura. Se non esistesse l’arrampicata perderei gran parte del fuoco che ho dentro.”


 

Avete parlato del Nepal. Come avete scelto la vostra destinazione?

“Abbiamo scelto il Nepal per diversi motivi. Abbiamo avuto la possibilità concreta di organizzare la spedizione dell'autunno quando era ormai metà estate, quindi a pochi mesi dalla partenza. Volevamo andare in Himalaya a scalare qualche cima inviolata. Dei vari stati che coprono l'arco himalayano il Nepal era sicuramente quello più semplice e più veloce dal punto di vista logistico per i visti, i permessi, la logistica in generale. La scelta finale è stata sicuramente condizionata dalla disponibilità maggiore di informazioni che abbiamo avuto in merito ad alcune valli con cime inviolate, grazie ad alcuni contatti giusti e gentili e ad una rete di informatori che a partire da queste informazioni si è rivelata disponibile e corretta.”
 

Il Nepal è grande, la logistica non è semplice. Come avete scelto il vostro obbiettivo laggiù?

“Ci siamo focalizzati su una zona inesplorata e nella quale c'erano molte cime ancora mai salite prima. Un po' alla volta ogni cosa ha preso il suo posto nel puzzle della logistica. Abbiamo volutamente scelto una valle poco turistica, con i pro e i contro che questo avrebbe rappresentato. Non volevamo immergerci nell'atmosfera commerciale che ormai caratterizza alcune zone del Nepal ma, al contrario, cercavamo l'autenticità dei luoghi ed il selvaggio più totale. Questo, d'altra parte, ha significato dover percorrere un lungo “avvicinamento” caratterizzato da un volo interno, due intere giornate in jeep su strade dissestate e senza regole, ed infine sei giornate di trekking. Contestualmente, anche il dover reperire informazioni precise e certe ha rappresentato una grossa incognita perché poche delle agenzie alle quali abbiamo chiesto sapevano di quale luogo e men che meno di quali cime stessimo parlando. Pensate che gli abitanti stessi del luogo non erano mai entrati nella valle secondaria che avevamo scelto per salire il Sato Peak e posizionare il campo base! Fortunatamente, il pastore di yak che ci ha supportato con il trasporto del materiale fino appunto al campo base, aveva alcune reminiscenze della sua infanzia: si ricordava infatti che quella zona fosse stata un pascolo per gli yak, ormai abbandonato. Grazie a questo ricordo, abbiamo potuto contare sulla "certezza" che gli yak fossero in grado di addentrarsi fin lassù e che ci fosse presenza di acqua (requisito fondamentale un tempo per i pastori ed ora per noi e per il nostro campo base, poiché vi abbiamo trascorso due settimane in totale autonomia). Consapevoli dei limiti e dei pericoli che la zona remota avrebbe potuto presentare, siamo rimasti flessibili fino all'ultimo momento anche rispetto alla cima che volevamo salire. Infatti l'obiettivo iniziale che avevamo scelto era lo Sharphu III, che dalla foto in nostro possesso era palesemente al di sotto dei 6500 metri. Tuttavia, a pochi giorni dalla partenza, l'agenzia che avevamo ingaggiato per la parte di permessi e trasporti interni ci ha comunicato che dai database nepalesi (che fanno da riferimento per il rilascio dei permessi di scalata) lo Sharphu III risultava alto 6800 metri. Questo faceva schizzare il prezzo del permesso di 2500 dollari aggiuntivi. La nostra misera foto non aveva certo il potere di cambiare i database nepalesi ad una settimana dalla partenza, e così abbiamo rivolto l'attenzione ad un'altra cima vicina, che ci sembrava raggiungibile dalla stessa valle.”


 

A questo punto siete atterrati a Kathmandu e vi siete immersi nella cultura nepalese.

“Si, Kathmandu, centro nevralgico di qualsiasi attività si voglia svolgere in Nepal, è stata una tappa obbligata e al tempo stesso interessante, ci ha dato una prima rumorosa sensazione di caos di questo paese. Kathmandu ci ha frastornato all'andata, ma è stata più facile da digerire al ritorno, forse perché già preparati a cosa ci aspettava. Forse invece, dopo aver vissuto un mese a contatto con la loro cultura, siamo riusciti a comprendere meglio degli aspetti del Nepal che avevamo vissuto anche nella capitale, apparentemente così diversa dalle silenziose valli di montagna. Abbiamo trovato persone molto gentili e disponibili, i colori, l'umiltà e l'amore per una terra semplice e stupenda, il desiderio di accogliere e fare turismo, seppure a modo loro!

Quello che però ci è piaciuto di più del Nepal, è stata indubbiamente la vita nei villaggi. Non ci siamo mai sentiti a nostro agio nelle grandi città, nemmeno in Italia. Immergersi nella pace della valle del Kangchenjunga dopo il caos di Kathmandu è stato come tornare a respirare (e a Kathmandu c'è talmente tanta polvere ed inquinamento nell’aria che è letteralmente difficile respirare!). Nei villaggi ogni attività prende un altro ritmo. Il servizio di cui abbiamo usufruito maggiormente è stato sicuramente quello dei pasti ed è il momento in cui ci si deve armare di infinita pazienza per la lunghissima attesa che ti aspetta, ripagata dalla genuinità e semplicità di quel che ti arriverà poi sul piatto. L'attesa è pienamente giustificata se si pensa che, dal momento in cui tu viandante bussi alla loro porta e chiedi un piatto caldo, loro assecondano la tua richiesta partendo dal tagliare la legna, segue l'accensione del fuoco, la raccolta degli ortaggi freschi nell'orto, il loro lavaggio, taglio e cottura.. e quindi in un tempo inferiore all'ora e mezza non sarà possibile mettere sotto i denti qualcosa! Il 99% delle volte poi, non c'è scelta e questo qualcosa è l'abbondante e tipico piatto di Dal Bhat, riso e crema di lenticchie, con qualche piccola e improbabile variazione sul tema.

Un altro aspetto interessante della vita nei villaggi, che contribuisce anch'esso a rallentare il ritmo quotidiano degli abitanti, è come viene effettuato il trasporto dei beni (che siano essi alimenti a lunga conservazione, assi di legno da costruzione o qualsiasi altra cosa). Non ci sono strade e il trasporto con mezzi a motore è impossibile. Tutto viene quindi trasportato dagli uomini su gigantesche ceste in vimini legate in fronte o dagli yak che, lenti ma inesorabili, rappresentano sicuramente una grande risorsa in più. Noi stessi ci siamo appoggiati agli yak per il trasporto della nostra attrezzatura fino al campo base. Il loro aiuto è stato fondamentale, senza ombra di dubbio, ma ha rallentato il nostro trekking di due giorni, sia all'andata che al ritorno. Gli yak non hanno lo stesso ritmo di camminata degli uomini: hanno infatti continuamente bisogno di fermarsi per brucare un po' di erba e alleggerirsi del carico pesante che portano (ogni yak può portare 50 kg).”


Con gli yak quindi siete arrivati al campo base. Il posto era proprio come ve lo aspettavate?

Non avevamo aspettative precise rispetto al campo base, perché avevamo esplorato la valle solo da Google Earth e FatMap, nella speranza di individuare la presenza di acqua ed una piana alla più alta quota possibile. Quindi, raggiunto il luogo che abbiamo sul momento stesso scelto per il campo base, le aspettative si riducevano a questi due elementi: acqua e terreno pianeggiante... E così è stato. Avremmo sicuramente preferito poter posizionare il campo ad una quota più alta, così da avvicinarci il più possibile alla nostra montagna e non doverci portare su e giù a spalla tutto l'occorrente, però purtroppo gli yak non erano in grado di salire ulteriormente e non avremmo più trovato l'acqua.

Il posto comunque era magnifico: eravamo completamente soli su un balcone sospeso affacciato sullo Jannu, una parete maestosa la cui cima raggiunge i 7700 metri. Con la sua imponenza racchiude l'intera valle del Kangchenjunga, come avesse un grande mantello di roccia e ghiaccio.”
 

Era la prima volta che vi trovavate così in alta quota? Come è andata?

“Per entrambi la quota di 6100 metri é stata la quota più alta raggiunta in vita, fino ad ora. Dalla spedizione abbiamo quindi imparato molte cose su come il nostro corpo si comporta a questa quota e sui tempi e metodi di acclimatamento. Non abbiamo avuto nessun problema serio, ma sicuramente ci siamo subiti svariate notti con mal di testa e nausea, talvolta con il respiro affannato. Questo non ci ha sempre permesso l'indomani di essere in forma come avremmo sperato.

La nostra salita stessa è slittata di un giorno perché la prima notte che ci siamo svegliati, pronti a partire per la cima, non eravamo assolutamente nelle condizioni di farlo. Abbiamo così posticipato il tentativo al giorno seguente.”


 

Dopo tutto il tempo passato a sognare e preparare la spedizione, l'infinito avvicinamento, è arrivato il momento di passare all'azione alpinistica.

"Eh si, era il nostro momento! Il 31 ottobre abbiamo lasciato il campo avanzato intorno alle 4.30 di mattina ed abbiamo iniziato la salita lungo il ghiacciaio. La neve ci ha fatto dannare parecchio perché era molta ed inconsistente. A tratti affondavamo fino al ginocchio. Al buio faceva molto freddo, non riuscivamo a scaldarci e la progressione era lenta. La temperatura si aggirava intorno ai -20° Celsius ma sapevamo che dovevamo solo resistere un po'. Dopo qualche ora il sole sarebbe sbucato da dietro lo Jannu e avrebbe portato la temperatura a livelli più accettabili.

Raggiunto l’inizio della cresta rocciosa, dopo qualche tentativo di perlustrazione, abbiamo trovato il punto migliore per il quale salire ed iniziare la scalata. Anche qui nei tratti più ripidi la neve non permetteva una salita agevole e quindi abbiamo sempre cercato dei punti dove, anche se di scarsa qualità, prevalesse la roccia. La salita alternava tratti di roccia appoggiata dove procedere in conserva a tratti più ripidi dove era richiesta invece una progressione a tiri.

Tentavamo ripetutamente di testare la tenuta della neve nel versante nord, che ci avrebbe consentito una progressione molto più veloce, ma eravamo sempre costretti a ricorrere alla roccia, dove per lo meno riuscivamo a piazzare qualche friend o spuntone per assicurarci. L'arrampicata è stata varia e divertente, salvo qualche tratto di massi instabili e roccia marcia. Dopo sei ore di viaggio in cresta siamo arrivati sull'antecima del Sato Peak a quota 6100, il primo obiettivo che ci eravamo prefissati. Per raggiungere la cima principale, a 6200 metri,  avremmo dovuto a questo punto scendere e reperire una cresta nevosa, zigzagando tra alcuni seracchi. Purtroppo però le condizioni della neve erano sempre pessime ed abbiamo quindi deciso di concludere la nostra salita su questa cima senza nome.

La discesa è avvenuta lungo la stessa linea di salita, dove siamo scesi con molti tratti di arrampicata in discesa e qualche doppia nei tratti più ripidi. Nel tentativo di aggirare un torrione che in salita avevamo arrampicato, ci siamo trovati in piena parete sud su una sezione di pietre appoggiate l’una sopra l’altra che si muovevano solo a guardarle. Abbiamo perso parecchio tempo per superare questa sezione, con un po’ di paura siamo riusciti a tornare in cresta e da lì giù sino al colle nevoso... A questo punto potevamo dirci in salvo! Siamo scesi lungo il ghiacciaio con le ultime luci, godendoci un bellissimo tramonto sullo Jannu, che ci ha fatto compagnia come ogni giorno, e col sopraggiungere del buio siamo rientrati al campo base avanzato dove siamo crollati in tenda, esausti.”
 

Avete chiamato la vostra salita Kalypso, la divinità greca che irretisce Ulisse. Perché questo nome? Siete stati anche voi catturati dalle montagne nepalesi?

“Abbiamo deciso di chiamare la nostra cima Sato Pyramide per la forma piramidale e di avancorpo che ha rispetto alla cima principale. Mentre il nome che abbiamo scelto per la via, Kalypso, si ispira al fatto che durante la permanenza al campo base avevamo come unico intrattenimento l’Odissea che Silvia si era scaricata  sull’e-book. Ci sentivamo in qualche modo prigionieri anche noi dell’amore...non per la ninfa ma per queste montagne che ci motivano a insistere e inventare sempre nuovi progetti. Kalypso inoltre deriva dal verbo greco “nascondere”: tutto di questa spedizione è stato nascosto fino all’ultimo, prima di lasciarsi vedere.”


 

Cosa vi ha sorpreso di più di questo viaggio?

“La cosa che ci ha sorpreso di più è stata quanto il corpo si logori, e contestualmente la mente si stanchi, nell’attesa necessaria per un buon acclimatamento e per la lenta ascesa a cui siamo stati costretti, dovendo trasportare autonomamente il materiale dal campo base in su. L’attesa non è stata un tempo morto di per sé, non ci siamo mai sentiti annoiati. In questo tempo le ore di luce e di sole erano poche e quelle di tenda, passate al freddo con temperature sotto zero tante.”
 

Tornerete presto in Nepal?

“Non sappiamo ancora se torneremo in Nepal.. Sicuramente siamo rimasti catturati dall’imponenza di queste montagne e dal loro isolamento, ma il mondo è pieno di catene montuose che vorremmo scoprire e siamo sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e diverso per noi. Forse quindi toccherà a qualcos’altro prima di un ritorno in terra nepalese!”

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